Breakfast at Giorgio’s

reggioroofgardenbiancoenero500di Ariella Lea Heemanti - Il tempo è adesso come allora, al ginnasio. La neve che si mescolava ormai alla pioggia, vi si scioglieva, non arrivava a terra, mentre noi avremmo voluto continuare a vederla sul mare.

Il vento.

La musica, le parole nelle orecchie erano quelle di "Quanno chiove", e nella mente, tra le mani, il compito di tradurre in italiano il giuramento di Platea. La prof. di lettere, nelle pause, ci diceva:

«Non vi voglio vedere anche solo nei paraggi di Previti o del Cordon Bleu».

I suoi occhi brillavano mentre lo diceva, erano come smeraldi che rifulgono e tagliano.

E poi c'era quasi sempre il sole.

All'uscita di scuola, dal cancello laterale, a volte vedevamo Matacena junior, che era di qualche anno più grande di noi. Una macchina. Gli sportelli che si aprivano. Qualcuna delle compagne che commentava: «Si fa venire a prendere e portare dai guardaspalle di suo padre».

Quella era una città immota.

"Οΰ ποιήσομαι περί πλείνος τό ζήν τής ελευθερίας".

Non stimerò il vivere più della libertà.

Così traducevamo dalla versione di Licurgo.

I mafiosi non morivano per questo. Essi uccidevano e morivano perché il loro credo era ed è la morte. E c'era, nella città, tutta quell'atmosfera inamovibile di connivenza, di compiacenza, di favori scambiati e condivisi, dei figli e delle figlie della borghesia non proprio all'oscuro di questo, che però ridevano, come perse in un sorriso bleso, in una felicità priva di scrupoli e di domande.

Poco più giù il mare, che andavamo a guardare da vicino, a respirare, tornando a casa a piedi, quelle di noi che non avevano e non amavano quell'accento, quell'inflessione della Reggio bene, del Cordon Bleu, del Polimeni, i vestiti comprati a iosa da Foti G, ed erano felici lo stesso, la semplicità, i racconti, l'ascendenza, la nostalgia e la promessa del nostro vero mondo.

Il movimento interiore, l'aspirazione morale in quell'ambiente estraneo.

In via Veneto, passando, prendevamo in giro l'insegna sgrammaticata di un ristorante, "to Rocco", che non aveva niente neanche di Brooklyn, e ai nostri occhi era solo un'altra miserabile pretesa, il codazzo di una consorteria di malvagi, di una κοινη κακών che si era laureata in giurisprudenza dall'altra parte dello Stretto, aveva esportato oltreoceano la velocità violenta della 'ndrangheta, la droga, le armi, i sequestri di persona, e non aveva importato altro, nella città, che la solita, plumbea atmosfera di dominio, di asservimento, complicità, sostituendo coppole e lupare con titoli universitari per rafforzare e migliorare l'amalgama di società. I banchetti però erano sempre quelli, i convitati, i notabili, gli amministratori, persino magistrati indulgenti, come invogliati dal potere suadente e necrofago della Picciotteria. Le votazioni, gli appalti, le cicciole di maiale. La mentalità, la brama, la convinzione d'essere uomini d'onore e di fare il bene mentre è alla dimensione del male che essa è sempre appartenuta con quello sguardo, quella presa sulle vite altrui e una maschera agghiacciante di munificenza.

Il tempo poi passò, con la seconda guerra di 'ndrangheta, le fioriere, Piero Battaglia che se la prendeva con i giornalisti accusandoli di rovinare l'immagine della città, l'assassinio del giudice Scopelliti e quasi un intero Paese che dopo la morte per massacro dei giudici Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, dei poliziotti delle loro scorte, si preparava a mandare al governo il datore di lavoro del mafioso Vittorio Mangano, mentre l'orma delicata e inerme dei piedi di Libero Grassi, abbandonata su un marciapiede di Palermo, solo a chi coltiva una memoria continuava a suggerire l'idea che non si debba conferire, mai e poi mai, con il "geometra Anzalone".

La città era ora lontana, più che mai.

Tra quelle compagne di scuola refrattarie al suo modello, al tessuto connettivo delle sue trame, all'indolenza di altre ragazze dai visi di lentiggini e dai cognomi che rappresentavano il gotha comunale, non ci si incontrava più.

Restavano solo le lettere di anni prima, ripiegate e riposte in un quaderno, con lo scalpore e l'afflizione per un uomo fatto saltare in aria, in pezzi, non molto distante dal nostro liceo, al punto che quella bomba, quel boato, quasi aveva sconquassato anche noi, in classe, sedute ai nostri banchi e attonite, spaventate, mentre il vicepreside veniva ad avvertirci e noi avremmo atteso il tempo necessario per sapere che c'erano dei Cavalieri del lavoro, a Catania, i quali avevano mire su un porto calabro, e politici inveterati, e amici degli amici, e in tutto questo l'onestà, il rifiuto di un uomo, di un lavoratore, costava la morte.

Ora dai manifesti elettorali affissi nella città Amedeo Matacena junior sorrideva, e la scritta diceva: "Una faccia pulita".

All' Espresso il figlio dell'armatore riferì che quella dei rapimenti non era 'ndrangheta, che "la 'ndrangheta possiede valori paragonabili a quelli della più antica cavalleria". Ohibò.

Chi aveva raccontato questo al giovane Matacena, sua madre, Miss Italia, da bambino, nelle favole?

Suo padre, rievocando forse con lui la rivolta di Reggio e le forniture, l'ausilio delle 'ndrine?

O sulla Caronte il mozzo di 'ndrangheta, divenuto un giorno vicepresidente della giunta provinciale?

E ancora con quella storiella di Osso, Mastrosso, Carcagnosso, che dovevano essere stati, pure loro semmai, dei figuri.

Arrivando in città per scrivere, succedeva d'incontrarla, sul corso, la prof. di lettere del ginnasio.

Lei chiedeva nuove sulla vita e sugli studi, sempre con quel sorriso smagliante e quella severità che le baluginava negli occhi. E una la rassicurava, la felicitava persino.

In borsa c'era un quaderno dove erano stati ricopiati alcuni passaggi del Procedimento penale numero 211/A 86 G.I. contro Albanese Mario + 190.

De Ritz Luigi:

«Durante la nostra permanenza a casa De Stefano vennero alcune persone a trovare Giorgio. Il primo visitatore fu un sacerdote, tale don Luigi, cappellano del carcere di Reggio, il quale si limitò a scambiare con Giorgio dei convenevoli e andò via subito. Ricordo che Giorgio mi disse che se mi fosse successo qualcosa, nel senso se fossi stato arrestato, mi sarei dovuto rivolgere a don Luigi in caso di bisogno. Fui portato in camera di sicurezza e l'indomani mattina rimasi molto sorpreso quando un agente si scusò dicendomi che non potevano servirmi per colazione uova fritte e pancetta affumicata, quasi sapesse che io faccio abitualmente colazione in tal modo. Quando fui portato in carcere fui sistemato sulle prime in uno stanzone, da solo. Chiesi subito di don Luigi, il sacerdote che avevo conosciuto in casa di Giorgio e gli dissi, come mi era stato raccomandato da quest'ultimo, che ero amico di Giorgio. Il sacerdote non mi rispose e andò via. Poco dopo arrivò Vincenzo Saraceno, che sapevo trovarsi in carcere, il quale provvide immediatamente e con grande efficienza a farmi sistemare nella sua cella. I detenuti del gruppo di Archi disponevano di una gran quantità di liquori, generi alimentari di ogni specie, vino. Tutta la vita carceraria era dominata da rigide regole gerarchiche di tipo mafioso, che disciplinavano il modo di comportarsi, l'ordine dei posti a tavola, persino il modo di vestirsi».

Pagano Oreste:

«Nel carcere di Reggio Calabria ho avuto l'impressione che tutti i difensori facessero capo a De Stefano, anche quando avevano colloqui per altri detenuti, per cui ritenevo che il predetto De Stefano fosse l'unico avvocato di Reggio».

C'era quel sorriso della prof., quel suo sguardo sfolgorante come allora, quando ci ammoniva a non aggirarci nemmeno nei pressi dei locali in vista della città.

E in borsa quegli appunti su un processo penale per mafia.

Alla fine del corso, prima che inizi la strada per il porto, lo scheletro del Roof Garden, dove vent'anni prima il fuoco dei proiettili di 'ndrangheta si era riversato su altri due De Stefano, dove era stata inaugurata la stagione dei gangster universitari e, come in un romanzo di Truman Capote o in un film di Blake Edwards, verdeggiava l'abitudine degli aperitivi con i mafiosi, le signore, i benestanti della città, in una Quinta Strada provinciale su cui affacciavano l'intrallazzo, l'ossequio e la violenza messi insieme.

In borsa quegli appunti, le testimonianze della continuità di 'ndrangheta, dell'avvocatura, della subalternità, delle "colazioni da Giorgio" dentro e fuori dal carcere.

Un breakfast at Giorgio's mentre l'aria del mare rimandava a quella sensazione di estraneità di anni prima, quando le tesine di fine anno d'italiano su Cesare Pavese e Pier Paolo Pasolini facevano stringere gli occhi, aggrottare la fronte, guardarlo ogni momento il mare dalla sala, scrivere con felice rapidità sui fogli e tenere conto dello statu quo, dell'immutata, malsana condanna della città come di qualcosa cui non ci si poteva adattare, a cui non offrire mai neanche solo lo spiraglio del proprio essere.

Adesso il tempo è come allora, la pioggia, il vento, la neve che si mescola e si scioglie.

Il sole che poi viene.

Amedeo Matacena junior è ora a Dubai, tra le palme e le spiagge finte e quegli immaginari cavalieri di 'ndrangheta che forse lo accompagnano là, sollevando ancora per lui tra le dune l'illusione inutile e deleteria dei valori di mafia e convincendolo che a lui sia stato intentato "un processo politico", ciò che sosteneva di sé e dei detenuti al 41 bis Leoluca Bagarella, urlando e cercando di intimorire i giudici.

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Nel processo per mafia a suo carico, denominato non a caso breakfast, Antonino Fiume lo descrive intento a consumare la pizza a cena al Papirus, insieme con la 'ndrangheta reggina, per festeggiare l'elezione dell'ex mozzo sulle navi di suo padre, mentre lui voleva fare della città una piccola Las Vegas o Montecarlo, in cui non sarebbe stato conveniente seguitare a sparare, fra 'ndrine contrapposte, per non scoraggiare i turisti ed i visitatori.

E anche la città è come allora, con quell'odore diffuso di politica e 'ndrangheta, di imposizione ed accordo, una storia falsata, l'aria del mare, lo scheletro del Roof Garden, quella villa di cemento e di mafia - Tacita Georgia - a Cap d'Antibes, come alle spalle, ancora incombente, sui cieli, sull'anima antica pur sempre restia e in disparte, per nulla familiare alla mitologia di 'ndrangheta, all'immagine rinnovata e perpetua di personaggi che quest'anima hanno voluto sostituirla con l'abiezione.